Le donne che vanno spesso in chiesa vivono più a lungo. E si ammalano meno di cancro e di malattie cardiovascolari.
Uno studio Usa

Lo ha stabilito un’analisi condotta su una coorte del Nurses’ Health Study pubblicata online first su JAMA Internal Medicine. Ma si tratta di uno studio che, anziché dare risposte, genera domande. Di certo, afferma un editoriale apparso sullo stesso numero, non è possibile ignorarne i risultati, vista l’importanza dei numeri e la durata del follow up

16 MAG – Andare di frequente in chiesa, nelle donne, riduce il rischio di mortalità per tutte le cause, in particolare quella per cancro e malattie cardiovascolari. E’ quanto rivela uno studio pubblicato su JAMA Internal Medicine che ha utilizzato dati del Nurses’ Health Study.

Tyler J. VanderWeeledella Harvard T.H. Chan School of Public, USA e colleghi hanno valutato la correlazione tra la frequentazione di funzioni religiose e la mortalità in una coorte di donne, utilizzando le risposte raccolte attraverso un questionario e seguendole per 16 anni. La maggior parte delle partecipanti a questo studio era di religione cattolica o protestante.
Tra le 74.534 donne che nel 1996 avevano risposto al questionario, 14.158 hanno riferito di andare in chiesa più di una volta a settimana, 30.410 una volta a settimana, 12.103 meno di una volta a settimana e 17.872 di non andarci mai. Le più assidue frequentatrici di servizi religiosi mostravano in generale meno sintomi depressivi ed erano più spesso sposate e non fumatrici.

In questo gruppo di donne nel corso dei 16 anni di follow up si sono registrati 13.537 decessi, tra i quali 2.721 per malattie cardiovascolari e 4.479 per cancro. Tuttavia le grandi frequentatrici di funzioni religiose hanno presentato un rischio di mortalità ridotto del 33% durante i 16 anni di follow up, rispetto a quelle che non mettevano mai piede in chiesa. Quelle che frequentavano la chiesa una volta a settimana hanno visto il loro rischio di mortalità ridursi del 26%, mentre le frequentatrici meno assidue potevano contare comunque su una riduzione di mortalità del 13%.

Lo studio suggerisce dunque che chi partecipa a funzioni religiose più di una volta a settimana, presenta un rischio di morire per cause cardiovascolari e per tumori ridotti rispettivamente del 27% e del 21%, rispetto a quelle che non vanno mai in chiesa. Secondo gli autori un importante contributo a questa riduzione di mortalità va ricercato nella minor presenza di sintomi depressivi, in un maggior ottimismo di fondo, in una meno frequente abitudine al fumo e nel poter contare su un supporto sociale . Sono risultati tuttavia che non possono essere generalizzati, ammettono gli autori, anche perché la maggior parte delle partecipanti erano cristiane, bianche, lavoravano come infermiere e potevano contare dunque su un buon salario e su un bagaglio di conoscenze che predisponeva ad uno stile di vita salutare.

Non è possibile dunque rintracciare in questo studio un sicuro rapporto causale tra l’andare in chiesa e il veder abbattuto il proprio rischio di morte e d’altronde non è ipotizzabile il fatto di poter organizzare un trial randomizzato caso-controllo su chi va in chiesa e chi no.
“Religione e spiritualità – riflettono gli autori – possono rappresentare una risorsa per la salute, che i medici non hanno ancora sufficientemente valorizzato e tenuto in considerazione e che forse merita di essere esplorata con i propri pazienti, ove possibile”.

“In questo numero di JAMA Internal Medicine – scrive in un editoriale di accompagnamento Dan German Blazer del Duke University Medical Center, Durham (USA) – Li e colleghi riferiscono la presenza di una chiara e piuttosto forte associazione tra la frequentazione di funzioni religiose e una ridotta mortalità nel corso di 16 anni di follow up in un sottogruppo dal Nurses’ Health Study. Per prima cosa, lettori e ricercatori devono, come fanno gli autori dello studio, focalizzarsi sui dati, né più e né meno, e non cercare di generalizzare oltre l’evidenza”. Ma allora quale è la lezione di questo studio?
“L’associazione statistica emersa da questa analisi – ammette l’editorialista – è decisamente solida e importante; non è possibile ignorarla e di certo merita di essere indagata a fondo”

 

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